Deportazioni immigrati,
se questa è America…

Il lettore scuserà se sembrerà che la si prende alla lontana; ma quello che accade “oggi” ha radici in un “sentire” e in un “essere” che viene da lontano.

Giovanni Collot è uno studioso specializzato in politica statunitense e affari europei; una lunga esperienza a Bruxelles, direttore della rivista “The New European”, cofondatore di “iMerica”. In un fascicolo della rivista “Aspenia” di qualche anno fa spiega molto bene la “retorica” di Donald Trump, che contro ogni aspettativa aveva vinto le elezioni contro la candidata democratica Hillary Clinton: «consiste in un discorso che procede per anafore (la ripetizione di una parola iniziale), superlativi e iperbati, in quello che appare quasi un flusso di coscienza, che mima l’immediatezza del parlato quotidiano delle persone comuni».

Donald Trump

Una lingua volutamente semplice, ridotta all’osso, al livello di un bambino della scuola elementare: serve a veicolare una visione del mondo altrettanto semplificata, dove la decadenza degli Stati Uniti d’America diventa un fatto incontrovertibile e ovvie le sue cause: concorrenza da parte della Cina, immigrazione fuori controllo, troppe avventure all’estero, incapacità delle élite corrotte di offrire soluzioni. Trump si erge come il leader in grado di risolvere i problemi e restituire agli Stati Uniti la perduta grandezza: gli altri sono “stupidi”, lui è «la persona più intelligente che si possa immaginare», «si circonderà dei migliori che riuscirà a trovare».

Una “retorica” che ha funzionato. La seconda volta di più e meglio della prima. Si è inserita nella pelle nel subconscio del paese. La visione del mondo di Trump non è più “solo” marketing elettorale, diventa manifesto di governo. Naturalmente non è detto che possa e sappia realizzarsi compiutamente; c’è da augurarsi che sia annullata dall’inevitabile contrasto con la realtà e le sue aspre esigenze.

La Casa Bianca

I cardini di questa “retorica” sono stati visivamente esibiti con la caterva di firme per decreti presidenziali varati quando le cerimonie di insediamento alla Casa Bianca erano ancora in corso: arroganti proposte protezioniste in economia; orgoglioso isolazionismo in politica estera (non scevro, tuttavia, da rivendicazioni territoriali: il voler annettere la Groenlandia e il canale di Panama); una muscolare azione di contrasto all’immigrazione; una sostanziale indifferenza per questioni civili e sociali.

Un “programma” che trova in Trump il campione, ma che appartiene a una consolidata tradizione, affonda nei movimenti ‘populisti’: da quelli di inizio secolo ai più recenti Tea Party.

Certamente Trump non riuscirà a mantenere tutte le sue promesse; probabilmente neppure lui ci crede. Gli basterà far credere che farà di tutto per realizzarle. Il fondatore di Paypal Peter Thiel coglie l’essenza della questione: «Il problema dei media è che prendono Trump alla lettera, ma non sul serio. Invece, credo che molti degli elettori di Trump lo prendano sul serio, ma non alla lettera».

Questa è la chiave del successo di Trump, che faticano a comprendere sia le élites americane (che ancora frastornate si leccano le ferite), sia gli europei, anche i più filo-americani.

Muro anti immigrati tra Texas e Messico

Thiel in sostanza ci dice che occorre andare oltre gli artifici retorici (la lettera), e cercare di individuare il sistema di valori all’interno di quanto Trump promette (prenderlo sul serio). In sostanza: «Se Trump promette di costruire il muro o di schedare i musulmani, gli elettori non chiedono: ‘costruirai un muro come la Grande Muraglia cinese?’, o ‘come farai a realizzare dei test efficienti?’. Quello che sentono è ‘avremo una politica dell’immigrazione più rigida ed efficace’».

Il “programma” è costituito da allusioni urlate, non da razionali spiegazioni. Per esempio: le recenti retate, cui sono seguite le migrant deportation flights: orribile quell’immagine di una decina di poveretti incatenati “ingoiati” da un aereo militare che li porta chissà dove. Ci si è lambiccati il cervello sulla giusta traduzione: deportazione, oppure espulsione, o restituzione… (al di là delle chiacchiere: sono voli di deportazione di migranti clandestini). Quella che conta è l’immagine: evoca, colpisce, perfino rassicura e conforta.

Trump, complice un Partito Democratico allo sbando, intercetta i malesseri che serpeggiano in larga parte della popolazione statunitense; ci penseranno gli studiosi e gli analisti (forse) a spiegare le ragioni per cui convive un’economia in espansione, una disoccupazione al minimo e al tempo stesso la percezione di un progressivo impoverimento economico e un rattrappirsi esistenziale. Un sondaggio del Pew Institute documenta che il 60 per cento degli statunitensi si dichiara relativamente soddisfatto della propria situazione; al tempo stesso il 25 per cento si dice soddisfatto della direzione del paese nel suo insieme. Come spiegare il “divorzio” tra la percezione di relativo benessere individuale e il pessimismo collettivo? Trump, comunque, si incunea bene in questa contraddizione.

Deportazioni, Immigrati clandestini rimpatriati da Trump

Immigrati clandestini rimpatriati da Trump

Le : “Ladies and gentlemen, we are deported”, dice in sostanza Trump. Il personaggio nei quattro anni della sua prima presidenza si è specializzato in un fuoco d’artificio di frottole, una media di trenta al giorno. Conforterebbe che anche questo suo promettere “deportazioni” rientrasse in questo paniere. Non sarà così. Per quanto sarà in suo potere (ed è immenso) darà seguito a quella che ha tutte le premesse d’essere una delle più grandi deportazioni di tutti i tempi.

Trump dà, letteralmente, i numeri: qualche volta sono 11 milioni gli immigrati clandestini; altre salgono a 15; altre ancora raggiungono i 20 milioni. Il fatto che al momento siano stati deportati un’ottantina di clandestini in Brasile e una novantina in Colombia non deve rassicurare. Quando il presidente colombiano Gustavo Petro, definito “socialista estremamente impopolare”, accenna un tentativo di dissenso; Trump non esita a mostrare di quale pasta sia la sua “diplomazia”: tutti i prodotti colombiani gravati con un 25 per cento (a crescere) di tariffe doganali, sospesi i visti d’ingresso agli USA. Petro alza subito le mani, si arrende. Del resto, cosa poteva fare? Un “discorso” che molti americani hanno apprezzato.

Deportazioni, Immigrati clandestini espulsi

Immigrati clandestini espulsi

“Deportare” per Trump significa anche ristabilire le “regole” in quello che un tempo gli USA consideravano il proprio “cortile di casa”. Non a caso evoca il “destino manifesto” della Nazione proclamato nel 1825 da James Monroe, quinto presidente USA, e indica come modello William McKinley, venticinquesimo presidente. Per rubare la battuta al Polonio shakesperiano: “there’s method in his madness”.

Trump, bisogna riconoscerlo, non inventa nulla. Nel 1954 l’allora presidente Dwight D. Eisenhower ordina la deportazione di un milione e trecentomila immigrati messicani. E sapete chi è il presidente che ha realizzato il maggior numero di deportazioni? Il democratico (ancora molto amato in Europa) Barack Obama: lui, l’afro-americano, il liberal, che si vede conferire il premio Nobel per la pace prima ancora di essere insediato… Tra il 2009 e il 2016 rimanda nei paesi d’origine 3.200.000 persone (Trump nella sua prima presidenza è arrivato a circa un milione). Un rapporto dell’Immigration and Custom Enforcement rende noto che il 2024 (presidente Biden) è stato l’anno con il maggior numero di espulsioni nell’ultimo decennio: fra ottobre 2023 e settembre 2024, sono stati fatti uscire dal territorio statunitense 270mila stranieri entrati illegalmente. Molti analisti osservano che le deportazioni di immigrati clandestini ordinate dall’amministrazione Biden superano di molto quelle di Trump (2017-2021). La differenza sta nella comunicazione e nelle modalità: Biden e Kamala Harris non volevano separare le famiglie, soprattutto in presenza di figli minori, e non eseguire retate in scuole e chiese.

Un immigrato fermato

È assodato che chiunque si voglia stabilire in un paese deve adeguarsi alle leggi vigenti. Un anno fa repubblicani e democratici avevano raggiunto un’intesa per una riforma dell’emigrazione che in sostanza accoglieva le istanze dei repubblicani: “frontiere chiuse” e “lotta alla clandestinità”. In soffitta il vecchio liberalismo in materia di immigrazione. Buoni per i turisti, il sonetto di Emma Lazarus inciso sulla placca posta alla base della statua della Libertà a New York: «Give me your tired, your poor, your huddled masses, yearning to breathe free, the wretched refuse of your teeming shore….» («Dai a me le tue creature esauste, i tuoi poveri, le tue plebi accalcate che bramano respirare liberamente, gli sventurati rifiuti delle tue brulicanti sponde…»).

L’accordo poi sfuma perché Trump per la sua campagna presidenziale ha bisogno di evocare lo spettro delle frontiere aperte, “l’invasione”. Così viene impartito l’ordine di affossare la legge bipartisan.

Il resto è cronaca: la candidata democratica dell’ultima ora, Kamala Harris (che fino al 2019 si era battuta per depenalizzare il reato di immigrazione clandestina) difende la necessità d’una legge organica che risolva il problema immigrazione chiudendo, di fatto, le frontiere. Trump spudorato, macina menzogne e fake news come la storia degli haitiani che, in Ohio mangiano cani e gatti. La “descrizione” che offre è quella di Stati Uniti “occupati” da orde di «delinquenti, assassini, stupratori e malati mentali» inviati di proposito da paesi ostili che svuotano così i manicomi e le carceri, con la fattiva complicità dell’amministrazione Biden.

Dal punto di vista operativo Trump non ha i vincoli; mostrando gli immigrati in catene vuole dimostrare che manterrà le promesse elettorali. Più facile da dire che da fare. Non sarà una passeggiata. L’annunciata abrogazione del Jus Soli, il fatto di diventare cittadini americani se si è nati in suolo americano, è un principio costituzionale. Non può essere abrogato con una direttiva presidenziale. Un giudice lo ha già bloccato, la stessa Corte Suprema, per quanto a maggioranza trumpiana, non potrà avallare questo vero e proprio abuso. Trump avrà contro buona parte della magistratura e tante amministrazioni locali governate dai democratici. Tuttavia, a sua disposizione ha una legislazione molto approssimativa e flessibile; inoltre per i primi due anni che lo dividono dalle elezioni legislative di midterm, la maggioranza nelle due assemblee legislative del Congresso.

Donald Trump

Il tema dell’immigrazione è molto sentito nel Paese, a torto o ragione vissuto come un’emergenza: il Pew Research Center certifica che gli Stati Uniti sono il paese con più migranti nel mondo; nel 2018 ben 44,8 milioni di immigrati sono originari in un altro paese; è il 13,7% della popolazione totale (il triplo rispetto al 1970), il 20% circa di tutti i migranti del pianeta. Un quarto dei migranti è illegale, il loro numero è aumentato rapidamente: nel 2017 ha raggiunto i 10,5 milioni, il 3,2% dell’intera popolazione.

Un problema, ma anche una forza lavoro, una notevole risorsa economica. Trump sarà costretto a farci i conti.

Le deportazioni: l’evocata difesa delle frontiere, il motto “the Law of the Land” (la legge della Nazione), sono un pretesto. Trump fa e farà leva sul mai sopito razzismo che serpeggia avvelenando il paese. Non va dimenticato che durante il suo primo mandato (la sua politica immigratoria, nella sostanza non era dissimile da quella della precedente amministrazione), si produce nella vergognosa esibizione dei “bambini messi in gabbia”, migliaia di ragazzini forzosamente separati dai genitori. Crudeltà fine a sé stessa, altro che contrasto all’immigrazione illegale.

Dunque, di Trump si sapeva tutto, per tempo. Chi lo ha votato ed eletto lo ha fatto perché facesse quello che aveva già tentato di fare nel modo crudele in cui voleva farlo.

Come dice Thiel, se Trump vuole rispedire tutti gli immigrati clandestini, gli “invasori”, nei “shithole countries” (“stati del buco del culo”), noi ci si inquieta per il modo in cui si esprime. Il suo elettore si entusiasma perché vuole che lo faccia: convinto che “avvelenano il sangue della Nazione”, nemici da combattere costi quello che costi.

C’è un’altra immagine simbolo: una donna esile d’aspetto, voce che è poco più di un sussurro. È un vescovo episcopale. Durante una cerimonia religiosa di fronte a Trump autoproclamatosi uomo da Dio mandato per fare l’America di nuovo grande, ricorda la più cristiana delle parole, misericordia: “Have mercy”. Lui, tronfio della sua arroganza, la fulmina con lo sguardo, irato; lui e la sua corte: non meno significative le espressioni del figlio maggiore Eric, e del vice-presidente J.D. Vance: nei loro occhi si legge: “Come osa?”.

Due mondi diversi, opposti, alternativi. Quella donna è il simbolo di una possibile dignità e umanità che non si piega e rassegna; che ci si augura sappia e possa resistere, insistere, esistere.