L’Appia Antica fu tante cose diverse prima per la Repubblica e poi per l’Impero Romano. Prima di tutto era la via consolare più importante, l’autostrada che collegava Roma verso sud alla Magna Grecia, alla Grecia e all’Oriente. Era una strada ardita dal punto di vista ingegneristico che superava colline con ponti mozzafiato, tagliava promontori e asperità del terreno con grandi sbancamenti. Collegava militarmente, commercialmente e culturalmente civiltà diverse. Sul suo percorso fiorivano terme, circhi, acquedotti, ville ma anche mausolei e catacombe. Ce ne parla in dettaglio Maria Luisa Berti.
Il percorso dell’Appia, usciti dall’Urbe, proseguiva per Aricia (Ariccia), Forum Appii, Anxur (Terracina), Fondi, Itri, Formia, Minturno, Sinuessa (Mondragone), Capua, Vicus Novanensis (Santa Maria a Vico), Caudium (Montesarchio), Benevento, Aeclanum (nei pressi di Mirabella Eclano), Venosa, Silvium (Gravina), Rudiae (Grottaglie), Uria (Oria) e Brindisi. Brindisi fu poi collegata con Benevento anche tramite la Via Appia Traiana che l’imperatore fece costruire tra il 108 e il 110.
Per giungere alla prima mansio, ad Ariccia, la Via Appia scendeva da Albano a Vallericcia e risaliva verso Genzano, attraversando un monumentale viadotto in peperino, costruito alla fine del II secolo a. C., lungo 230 metri, che permetteva di superare il vallone a sud-est della città.
L’abitato sorgeva nella valle di un antico lago prosciugato, già cratere vulcanico, mentre l’attuale si trova sull’antica acropoli. Restano poche testimonianze di epoca romana, tra cui la porta sud, detta il “Basto del Diavolo”, e il viadotto. Venendo da Roma, sulla destra dell’Appia, c’era la stazione di sosta, identificabile con il modicum hospitium, ricordato nella V satira da Orazio, che qui si fermò mentre viaggiava verso Brindisi.
Il viadotto, di cui resta ben poco, fu immortalato in un’acquaforte da Giovan Battista Piranesi nel Settecento. Un arco al centro del viadotto e due fogne, ricoperte ad arco, servivano per il deflusso delle acque piovane. Dopo il viadotto al XIX miglio sorge un cippo con il nome dell’imperatore Nerva.
A 43 miglia da Roma sorgeva un’altra stazione di sosta a Forum Appii, ora Borgo Faiti, da cui partiva, tra le Paludi Pontine, un canale navigabile lungo 19 miglia, il decennovium, che si doveva attraversare con chiatte trainate da animali. Esso costeggiava Terracina e terminava a Feronia dove sorgeva il Lucus Feroniae, il bosco sacro con la fonte della dea, meta di pellegrinaggi.
Forum Appii fu abbandonato nel Medioevo e solo dopo la bonifica delle Pianure Pontine (1920-1930) la zona fu ripopolata. Furono qui ritrovati resti di edifici, di basolato e di materiali da costruzione, lapidi, cippi e un ponte romano sul fiume Cavata.
Terracina sorge alle pendici del Monte Sant’Angelo, o Monte Giove, che i Romani chiamavano Mons Neptunius e che è l’ultima propaggine dei Monti Ausoni sul Mar Tirreno. In origine la città era una località degli Ausoni che poi i Volsci chiamarono Anxur, il nome di Giove fanciullo, (Iupiter Anxur o Anxurus per i Romani) protettore della città. Secondo Tito Livio, prima dell’arrivo dei Volsci, il re Tarquinio il Superbo (VI sec. a. C.) avrebbe inviato dei coloni a Signia e a Circeii per presidiare la zona.
Una leggenda, ricordata da Dionigi di Alicarnasso, narra di un gruppo di navigatori spartani che, fuggiti dalla loro città e sbarcati sulla costa, avrebbero qui fondato un villaggio. Un’altra leggenda racconta che Ulisse salito al colle San Francesco (acropoli di Terracina) guardasse l’isola Eea, ora promontorio del Circeo, dove abitava la maga Circe.
Un’altra ipotesi identifica l’abitato con la città di Lamo, fondata dai Lestrigoni, nel cui porto sarebbe approdato Ulisse. Conquistata definitivamente dai Romani, Anxur nel 329 a.C. divenne colonia e fu poi iscritta alla tribù Ufentina. La zona era ricca di fonti: il Lucus Feroniae e la Neptunus fons. Con la costruzione della via Appia la città si estese nella pianura per la coltivazione del territorio. Poi nel 184 a.C. fu collegata a Formia tramite la via Flacca, costruita dal censore Luci Valerio Flacco.
All’epoca di Silla (I sec. a.c.) risalgono nuove costruzioni: una cinta muraria, un campo militare con case matte, il teatro e il tempio di Giove che, costruito su una rupe, il Pisco Montano, domina la città. Secondo recenti studi, pare che il tempio fosse attribuito a Venere (Venus Obsequens).
È un grandioso edificio di cui sono rimaste dodici grandi arcate di sostruzione a sorreggere la sovrastante struttura. Fu ricostruito su un’area di culto preesistente. È uno dei grandi santuari nel Lazio di epoca repubblicana, come il Santuario di Ercole a Tivoli e il Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, costruiti secondo modelli orientali. Nel II secolo a.C. vi fu un rifacimento con l’aggiunta di altri ambienti, tra cui il piccolo tempio dedicato alla dea Feronia.
Con la caduta dell’Impero Romano il tempio andò in rovina e in epoca medioevale era ricordato come il Palazzo di Teodorico. Nell’alto medioevo vi si insediò un monastero benedettino. Di epoca medioevale sono i resti di una torre quadrata e di mura di recinzione.
Alla fine del XVI secolo l’area religiosa e la città furono abbandonate a causa di varie epidemie.
I primi scavi risalgono alla fine dell’Ottocento e, fra i numerosi reperti, si ricordano i crepundia, giocattoli in miniatura, offerti alla divinità, ora conservati al Museo Nazionale Romano, che ha sede nel Palazzo Massimo di Roma.
L’imperatore Traiano per migliorare la viabilità dell’Appia fece tagliare la rupe del Pisco Montano. Si tratta di un’imponente opera d’ingegneria che consentiva collegamenti con località costiere. Inoltre, fece ingrandire il porto che era l’unico porto di Roma, prima della costruzione di quello di Ostia, voluto dall’imperatore Claudio.
Undicesimo articolo – Segue