Se hanno la coda sei gatti, non è detto che anche il settimo ce l’abbia. La filosofia empirista inglese non dava per scontato niente e si affidava sempre alla conoscenza verificata. La metafora è efficace. Bene: Pino Pisicchio è un gatto senza la coda, una rarità della politica italiana.
Mentre decine di migliaia di persone si sono furiosamente scontrate per ottenere una candidatura e, forse, un seggio in Parlamento, lui invece si è chiamato fuori. In una lettera al direttore della Gazzetta del Mezzogiorno ha annunciato la volontà «di rinunciare ad una candidatura al Parlamento, oggetto del desiderio di coorti di aspiranti». Pisicchio non vuole tornare alla Camera, ma intende dedicarsi ai suoi tanti impegni ed interessi professionali e culturali: l’insegnamento di diritto costituzionale all’università, il giornalismo, la scrittura di libri (saggi politici e romanzi con varie sfumature di giallo).
Pino Pisicchio, 63 anni, barese, ha ricordato sul giornale della sua città un dato risalente al remoto 1987: «Diventai deputato a 32 anni, con 80.000 voti di preferenza». Non è solo una notazione numerica, ha anche il senso di sottolineare uno dei caratteri fondamentali della Prima Repubblica: quella politica, pur con tanti difetti, aveva un sacro rispetto per la sovranità popolare; i voti si conquistavano uno a uno e il rapporto era diretto tra elettore ed eletto. Oggi invece, nella Seconda Repubblica, gli elettori non scelgono il candidato: l’onnipotente segretario del partito “vota” lui il deputato e il senatore nelle liste elettorali bloccate. L’elettore si limita a votare il partito o la coalizione.
A Pisicchio, cattolico democratico, allievo di Aldo Moro e di Carlo Donat Cattin, due cavalli di razza della Dc, questa politica sta stretta, non gli piace il cesarismo. I giornalisti parlamentari ricordano un suo “capolavoro politico” in difesa della propria autonomia. Nelle elezioni legislative del 2013 organizzò una sua lista elettorale battezzata Centro democratico: fu un miracolo, tra tanti giganti prese lo 0,49% dei voti ed ottenne 6 deputati in un sistema elettorale maggioritario che cancellava i piccoli partiti. Lo salvò un comma. Il Porcellum, la legge elettorale approvata dal centro-destra, prevedeva infatti l’ingresso a Montecitorio per “i migliori perdenti” di una coalizione, quei micro partiti sotto la soglia di sbarramento del 2% dei voti alla Camera. Il Centro democratico si piazzò in quella cruciale posizione e fu determinante per la vittoria del centro-sinistra di Bersani sul centro-destra di Berlusconi e sui cinquestelle di Grillo.
La Seconda Repubblica ha deluso. È fallita la “rivoluzione liberale” dell’imprenditore Silvio Berlusconi, la “rivoluzione padana” dell’indipendentista Umberto Bossi, la “rivoluzione giudiziaria” del pubblico ministero Antonio di Pietro, la “rivoluzione democratica” del professor Romano Prodi, la “rivoluzione tecnocratica” dell’economista Mario Monti. Adesso anche la “rivoluzione digitale” del comico Beppe Grillo si avvia a fare la stessa ingloriosa fine.
I problemi economici, sociali ed istituzionali dell’Italia si sono aggravati, così la protesta sociale è esplosa cavalcata dal populismo e dall’antipolitica. Pisicchio ha analizzato il fenomeno in un suo libro pubblicato nel 2015: I dilettanti. Splendori e miserie della nuova classe politica. Ne I dilettanti ha sottolineato l’impreparazione della nuova classe dirigente: «L’antico sentimento anti-politico degli italiani oggi si colora con un ‘di più’ rappresentato dal giudizio di insufficienza in termini di qualità e di competenza». Fa un raffronto con la Prima Repubblica: nel 1948 il 91% dei parlamentari era composto da laureati mentre «le Camere di oggi vedono precipitare l’indice al 68%».
La ricetta per invertire la rotta è politica: formare una nuova dirigenza di qualità per le assemblee elettive. Ma il presidente del Gruppo misto della Camera nella lettera scritta alla Gazzetta del Mezzogiorno è scettico: «Oggi vige la regola di Stevenson, l’autore de Lo strano caso del dottor Jekyll e mr. Hyde, il quale diceva di un giovanotto senza arte né parte: ‘Non sa far niente. Questo lascia presagire un brillante avvenire politico’». Pisicchio quando sarà fuori del Parlamento (almeno nella legislatura che inizierà il 5 marzo) proseguirà a battersi: «Fino a quando avrò forza e cose da dire continuerò, dunque, a fare politica per ribaltare la regola di Stevenson. Oggi, purtroppo, alquanto in auge».