Strapotere di Facebook
e democrazia del clic

Nel mondo di Facebook, la “democrazia” è un clic. Se sei uno dei suoi 500 milioni di utenti quotidiani, fai clic su “Mi piace” oppure su “condividi” e partecipi alla community. Ma chi sta dall’altra parte, in una delle sedi del più grande social network del mondo, può fare clic per bloccarti, per vietarti un accesso o un’azione.

Strapotere di Facebook, il logo

Logo di Facebook

Esattamente quello che è accaduto al nostro giornale online. Lo ha raccontato benissimo Rodolfo Ruocco che mercoledì 8 novembre ha acceso il suo computer e appena ha cercato, come ogni mattina, di mettere l’articolo più importante di www.sfogliaroma.it sulle pagine di alcuni gruppi si è trovato davanti a una schermata vagamente minacciosa di Facebook: «Azione bloccata», seguita da un preoccupante: «Accesso vietato fino alle 7,49 del 15 novembre».

L’arbitro ha fischiato il fallo («sembra uno spam») e immediatamente è arrivata la sospensione senza appello («questo blocco non può essere rimosso per alcun motivo»). Altra prova di democrazia… Ma ciò che colpisce di più è quel «sembra uno spam». Già, «sembra». E a chi «sembra»? Agli occhiuti guardiani di Facebook, naturalmente. E poi chi dovrebbe «verificare se (la cosa) non rispetta gli standard della community?». Ancora: quali sono «gli standard della community»? Chi li fissa? Chi controlla? Sempre Facebook naturalmente. Nel ruolo di giocatore, arbitro e giudice unico. Sempre in nome della democrazia… Evviva!

Sean Parker

Vista la situazione, sarebbe assolutamente inutile provare a spiegare ai guardiani del “social blu” che inserire un articolo messaggiandolo con un gruppo non è spam, ma informazione, che Sfogliaroma è un giornale, un foglio online curato da giornalisti professionisti. Quanto ai «troppi» messaggi quotidiani, che hanno portato alla «sospensione», si spiegano e si giustificano con i nostri numeri, con il crescente successo del nostro giornale online.

Se questi sono i fatti, siamo di fronte a una vera e propria censura, anche se poi dal punto di vista tecnico e formale non è tale. Diciamo, allora, che lo strapotere di Facebook può portare alla censura e ad altri gravi danni.

Basti per tutti lo scandalo delle “fake news” esploso nel 2016 durante la campagna per le presidenziali Usa. Ispirate da Mosca per danneggiare la candidata Hillary Clinton, hanno avuto indubbiamente un peso nella vittoria di Trump. Si dice che Obama avesse messo in guardia Mark Zuckerberg, invitandolo a intervenire, ma solo dopo le elezioni e la caduta del titolo in Borsa il fondatore di Facebook ha fatto ‘mea culpa’ ammettendo d’aver venduto spazi pubblicitari a una società russa, proprio durante le elezioni.

Il Campus di Facebook a Menlo Park, California

Il problema dello strapotere del colosso di Menlo Park è stato affrontato recentemente anche da Sean Parker, l’inventore di Napster che è stato uno dei padri di Facebook. A suo giudizio, il meccanismo messo in piedi funziona come un «loop di validazione sociale», ma è «pericoloso» perché «sfrutta la vulnerabilità psicologica delle persone».

Una ragione in più per frenare gli eccessi del social statunitense. Ma solo la politica può farlo, costringendo i giganti di Internet a dar conto a pubbliche authority indipendenti di ciò che fanno. E imporre il rispetto delle regole, delle leggi e dell’imposizione fiscale dei Paesi in cui operano.

Mark Zucherberg

Il padre di Facebook, che pure è uno degli uomini più ricchi del mondo, tiene molto alla sua immagine di progressista. Al punto da presentarsi come aspirante leader politico della nuova sinistra Usa. Nel 2016 ha voluto testare di persona i suoi potenziali consensi elettorali. Lo ha fatto girando l’America in lungo e in largo. Ha visitato carceri, ha parlato con tanti giovani, si è fatto fotografare con gli agricoltori. Ha concluso il tour davanti agli studenti di Harvard, dove ha presentato il suo manifesto ideologico: «È il momento che la nuova generazione si impegni e si occupi di cose di pubblico interesse».

Bene. Forse sarebbe di “pubblico interesse” anche rispettare un po’ di più l’informazione. Per esempio, evitando di equiparare, come fa il social di Zuckerberg, un articolo postato “troppe volte” a uno spam.