Il 2019 rischia di essere orribile per Xi Jinping. Si accavallano tanti problemi per il presidente della Repubblica popolare cinese: dalla guerra dei dazi con Donald Trump agli scontri a Hong Kong.
È forte la preoccupazione per le continue manifestazioni democratiche di protesta degli studenti. Tutto è iniziato a giugno contro una proposta di legge, poi ritirata, per l’estradizione in Cina. Ma ora gli scontri a Hong Kong si sono trasformati in una rivolta per più democrazia e contro il totalitarismo del potentissimo Partito comunista cinese.
Xi Jinping ha cercato di rassicurare Hong Kong: «Continueremo ad applicare il principio di un Paese due sistemi e garantiremo un alto livello di autonomia». Il presidente della Repubblica e segretario del Pcc ha usato un linguaggio morbido al contrario di Yang Guang. Il portavoce dell’Ufficio affari di Hong Kong e Macao ha parlato di «segnali di terrorismo». Pechino oscilla tra una soluzione politica e una militare per risolvere la crisi. Ad agosto ha ammassato delle truppe al confine con la ex colonia britannica per una eventuale repressione.
Carrie Lam, contestata capo dell’ esecutivo di Hong Kong (i manifestanti hanno chiesto le sue dimissioni), non ha escluso l’intervento militare dei soldati cinesi: «Dovremmo trovare noi una soluzione. Ma se la situazione diventasse troppo grave, allora nessuna opzione può essere esclusa se vogliamo che Hong Kong abbia almeno un’altra chance».
Hong Kong, una delle principali piazze finanziarie del mondo, è una ricca regione amministrativa autonoma della Cina: dipende solo per la politica estera e per la difesa da Pechino. Ha una propria moneta, un suo governo e gode di molte prerogative democratiche ereditate dall’amministrazione britannica (libertà di manifestazione e di stampa, garanzia dei diritti civili ed umani).
Gli abitanti di Hong Kong temono una lenta restrizione dei loro diritti garantiti da un accordo del 1997, quando il Regno Unito lasciò il protettorato dopo 150 di amministrazione. Da giugno si sono svolte manifestazioni di protesta imponenti, anche di oltre un milione di persone. All’inizio erano manifestazioni pacifiche come quelle di cinque anni fa, poi è prevalsa la violenza: ogni fine settimana si succedono scontri a Hong Kong tra migliaia di giovani e poliziotti in assetto anti sommossa. Gli agenti usano manganelli, idranti, lacrimogeni, proiettili di gomma per disperdere i manifestanti.
Scontri sono scoppiati anche il primo ottobre, giorno di festa per i 70 anni della nascita della Repubblica popolare cinese. Migliaia di persone, vestite di nero, hanno scandito slogan contro il Partito comunista cinese. La polizia ha lanciato lacrimogeni. Ha anche sparato. Un giovane manifestante,Tsang Chi-kim detto Tony per gli amici, è stato colpito in modo grave al torace.
I giovani in questi mesi, in genere con il volto coperto per non farsi riconoscere, hanno assaltato anche il palazzo del governo e bloccato l’aeroporto intercontinentale.
Joshua Wong, 22 anni, uno dei capi della rivolta, è l’incubo di Xi Jinping. Il giovane attivista è stato arrestato e poi rilasciato. Scese già in piazza nel 2014, era il leader del “movimento degli ombrelli”. Ha annunciato la sua candidatura nelle elezioni locali del 24 novembre per difendere i diritti dei cittadini: «Quelle distrettuali sono le uniche elezioni dirette a Hong Kong. Sono la prima occasione istituzionale per incanalare lo scontento della gente e per mettere pressione al governo e all’imperatore Xi Jinping».
Hong Kong è solo un piccolo puntino sulla carta geografica della Cina, ma è un importante problema per il Dragone rosso, una “mina”. Il territorio ha una Costituzione, la Basic Law, che assicura un’ampia autonomia di governo fino al 2047 (poi è prevista la piena integrazione con la Repubblica popolare). In particolare la Costituzione, sul modello britannico, garantisce «la salvaguardia dei diritti e delle libertà dei cittadini». Ecco, i cittadini di Hong Kong temono la restrizione dei loro diritti. I manifestanti vanno oltre, reclamano maggiore democrazia.