Tanti autogol europei
da recuperare
dopo il voto

Le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo sono ormai imminenti e si svolgeranno in tutti i Paesi dell’Unione tra il 6 e il 9 giugno 2024. I temi che hanno occupato finora lo spazio mediatico sono apparsi però marginali e distanti dai problemi di fondo che noi europei dovremo in ogni caso affrontare nei prossimi anni, quale che sia il risultato elettorale. Ma il tempo che rimane prima del voto può ancora servire per porre sul tavolo la gravità e l’urgenza di questi problemi, e chiedere un chiaro pronunciamento alle forze politiche sulle decisioni da assumere e sulle necessarie nuove modalità di governo comunitario europeo che esse comportano.

Rinnovo del Parlamento Europeo, Assemblea del Parlamento Europeo

Assemblea del Parlamento Europeo

La invasione russa del territorio ucraino e la violenta reazione militare nella striscia di Gaza da parte di Israele in risposta alla violenza terroristica di Hamas del 7 ottobre 2023, hanno anzitutto posto in evidenza in modo drammatico ciò che era tuttavia evidente da tempo: la debolezza dell’Europa come soggetto politico protagonista nei rapporti internazionali.

Questa debolezza dell’Europa rende oggettivamente più precario il già difficile equilibrio mondiale, e danneggia anzitutto l’Europa stessa, costretta a prendere atto delle situazioni di conflitto e delle loro conseguenze economiche e geopolitiche senza poter incidere realmente né sul loro andamento né, tantomeno, sulla loro soluzione.

E questa debolezza non riguarda solo le problematiche geopolitiche ma include anche problemi di sicurezza interna ed esterna. Ad esempio, la spesa militare europea complessiva, non certo trascurabile in termini di quantità, non è tuttavia in grado di produrre sicurezza continentale perché troppo disomogenea e frantumata a livelli nazionali. Oppure il fenomeno migratorio, con un’Africa in forte espansione demografica abbandonata alla crescente intrusione di Cina sul piano economico-finanziario e di Russia sul piano militare: fenomeni che hanno finito per aumentare la già forte spinta all’emigrazione verso l’Europa. Un motivo questo che dovrebbe convincere l’Unione Europea ad investire in modo strategico nello sviluppo africano, anche per poter dare alla immigrazione uno statuto legale e controllato, invece di limitarsi a finanziare qualche discutibile governo del nord Africa in cambio di un ipotetico freno agli sbarchi in Europa dei migranti in fuga.

Artiglierie russe

Un secondo campo di problemi riguarda i reali livelli di autonomia europea nella provvista di energia e di materie prime. Le conseguenze energetiche derivanti dalla aggressione alla Ucraina sono state drammatiche per l’Europa ed hanno segnato la brusca fine della strategia chiamata dai tedeschi “Wandel durch Handel” – cambiamento per mezzo del commercio – che fin dagli anni 1970 aveva caratterizzato la Ostpolitik nei confronti della Russia e non solo. Tale strategia era peraltro basata su una prospettiva di approvvigionamento energetico crescente e a basso costo, come dimostra la controversa costruzione nel Mar Baltico dell’oleodotto North-Stream 2 divenuto comunque, dopo l’inizio della invasione dell’Ucraina, del tutto inutilizzabile per un tempo indefinito.

A ciò si aggiunge la necessità di una profonda revisione delle filiere produttive generate dalla globalizzazione degli ultimi decenni a seguito dei cambiamenti in corso, a livello geopolitico, nei rapporti tra le principali potenze economiche del pianeta. Ciò per noi europei comporterà un nuovo grande sforzo di innovazione produttiva per mantenere alti i livelli di competitività e di tutela ambientale, ma anche un inevitabile accorciamento delle filiere produttive e la razionalizzazione delle catene di rifornimento, soprattutto nei settori considerati più strategici.

Ursula von der Leyen e Mario Draghi

Non si deve dimenticare, a questo proposito, che il governo USA, già dal 2021, ha varato un grande piano di investimenti a livello federale pari a 2.300 miliardi di dollari con lo scopo dichiarato di modernizzare il Paese e di aumentarne la autonomia produttiva, i cui effetti sullo sviluppo e trasformazione del sistema economico americano sono già misurabili. Anche la Commissione dell’Unione Europea, sia pure con ritardo, ha deciso di elaborare un proprio piano di sviluppo, che entro il giugno 2024 sarà definito sulla base delle specifiche relazioni richieste dalla Commissione a due italiani: Mario Draghi sulla questione della competitività ed Enrico Letta sui problemi relativi al mercato unico europeo.

A questo riguardo, già in una relazione nel corso della riunione informale dell’Ecofin a Gand lo scorso 23 febbraio 2024, Mario Draghi aveva anticipato la proposta di un piano europeo di almeno 500 miliardi di euro per non perdere competitività rispetto agli USA e al resto del mondo. Ma aveva anche sottolineato il fatto che risorse e programmi di questa dimensione richiedono volontà politica e strumenti di governo comunitari di cui attualmente l’Unione Europea non dispone o che non ha finora voluto attivare. 

Qualche segnale positivo in questo senso si era intravisto durante il periodo del Covid, ma era subito svanito con la fine dell’emergenza sanitaria. Ora siamo però di fronte ad un problema davvero strategico che, per la sua natura e per la sua dimensione, richiederà un grande salto di qualità delle decisioni e degli interventi, e cioè che si dia vita finalmente ad un effettivo governo unitario europeo dei problemi che hanno una dimensione continentale e quindi sovranazionale.

Mario Draghi, Emmanuel Macron e Olaf Scholz

La discussione su questo punto potrebbe trovare, tra gli Stati membri dell’Unione Europea, resistenze e opposizioni di natura politica o ideologica. Essa dovrà avvenire in modo aperto e collaborativo con tutti ma, se non vi fosse unanimità, non si deve escludere di procedere comunque, anche in un gruppo più ristretto di Paesi, con gli strumenti della cosiddetta cooperazione rafforzata.

Del resto, se avessimo atteso l’unanimità di tutti i Paesi non avremmo avuto nel 1985 lo spazio Schengen e neppure l’euro come moneta comune nel 1999.

L’alternativa – continuare con la scarsa efficienza politica e decisionale e con le miopie nazionalistiche – avrebbe come inevitabile conseguenza un ulteriore indebolimento strategico e geopolitico dell’Europa, anticamera di un molto rischioso declino competitivo sul piano economico e sociale.