È necessario «limitare l’afflusso di una pletora di elementi che sarebbe stato necessario rispedire nei luoghi di origine». Non si tratta di un recente proclama salviniano nei confronti dei migranti, ma delle parole di Salvatore Rebecchini, sindaco di Roma del dopoguerra, cattolico e liberale. Allora, come adesso, la crisi occupazionale, la mancanza di alloggi, la perdita del potere d’acquisto del ceto medio, si pensava potessero essere risolte attraverso un approccio repressivo «di ripulsa, o almeno di chiusura nei confronti dei flussi migratori». La stessa Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione negli anni Cinquanta era arrivata ad affermare una sorta di differenziazione tra «gli interessi di quelli che vivono e nascono nella Capitale e gli interessi di coloro che aspirano ad accedere ad una attività economica da svolgersi entro le sue mura».
È solo uno dei tanti parallelismi tra la Roma degli anni successivi alla Liberazione e quella dei giorni nostri, racchiusi nel libro di Roberto Morassut, deputato PD e assessore all’urbanistica sotto la Giunta Veltroni, LE BORGATE E IL DOPOGUERRA. Politica, società, ideologia alle radici della Roma di oggi, edito dalla Casa editrice Ponte Sisto e presentato venerdì a Roma assieme al bellissimo libro fotografico di Pasquale Liguori Borgate edito dalla casa editrice romana P.S.
La ricerca abbraccia cinque anni: dalla costituzione della prima Giunta comunale, guidata da Salvatore Rebecchini senza l’appoggio del Blocco del Popolo nel 1947 (e che anticipò la rottura nazionale all’interno della coalizione antifascista), fino alle elezioni comunali del 1952 che segnarono il primo momento di crisi del centrismo degasperiano, con il fallimento dell’Operazione Sturzo e una nuova fase di movimento e di dialogo tra la sinistra marxista ed i partiti laici che avrebbe preparato il clima nel quale sarebbe fallita anche la tentata riforma elettorale del 1953, proposta da De Gasperi: la cosiddetta “Legge Truffa”.
Allora, come oggi, si era alle prese con un’ondata immigratoria fuori controllo proveniente dal Mezzogiorno, dalle isole e dai piccoli comuni laziali a vocazione agricola: persone che scappavano dalla fame, pronte a lavorare sottocosto e a fare da concorrenza ai tanti disoccupati romani. Allora, come oggi, si assisteva a una forte decadenza del ceto medio che non era più in grado di far fronte agli affitti e di assicurarsi una vita dignitosa. Allora, come adesso, una serie di politiche restrittive aveva bloccato crescita e consumi.
La vita nelle borgate romane, previste dal piano regolatore del regime fascista, ma anche nelle numerose baraccopoli allora esistenti, era intollerabile. La Commissione d’inchiesta sulla Miseria istituita nel 1951, aveva fornito un’immagine agghiacciante: il reddito medio a persona oscillava dalla 5 alle 9 mila lire al mese contro le 40 mila lire calcolate come minimo vitale indispensabile; famiglie di otto persone vivevano in baracche di 6 metri quadri; sifilide e tifo erano all’ordine del giorno e le epidemie «si diffondevano con rapidità fulminante, in assenza dei servizi sanitari principali». Negli agglomerati di Pietralata e Gordiani c’erano 25 gabinetti comuni per cinquemila abitanti. La mancanza di trasporti pubblici che collegavano al centro, le forniture di acqua e luce a singhiozzo, quando inesistenti, facevano il resto.
Oggi dopo oltre settanta anni di quelle borgate originarie resta ben poco: ormai entrate a far parte della città, non sono più luoghi di confino e di emarginazione, ma l’area di disagio tutt’altro che sconfitta si è solo spostata di alcuni chilometri. Oggi le nuove “borgate” sono al di fuori del raccordo anulare: è lì che si concentra il maggior numero dei nuovi immigrati, l’abusivismo, il racket dei Casamonica e degli Spada. I dati della Commissione d’inchiesta sulle periferie della XVII legislatura, di cui Morassut è stato vice presidente, parlano di circa 900 mila cittadini che abitano in zone dove è più sentito il disagio economico.
Per il rilancio di quelle periferie il Governo precedente aveva stanziato fondi, numerosi progetti erano stati presentati, alcuni pronti a partire. Fondi che, con l’approvazione del recente decreto milleproroghe, sono stati bloccati e rinviati.
«Il Governo – ha detto Morassut intervenendo alla Camera sul provvedimento – ha fatto una campagna elettorale riempiendosi la bocca con la parola periferia, ma alla prova dei fatti ha dimostrato di essere nemico delle comunità, soprattutto di quelle che vivono nelle zone più difficili. La prima vera risposta che è stata data a Roma è stata quella di cancellare 50 milioni, concreti, veri, per interventi previsti dal bando per la città, uno scippo che ricadrà su Massimina, San Basilio, Trionfale, Valle Aurelia, Boccea, Santa Maria della Pietà, Pratica di Mare, Santa Palomba, Ardeatino, Guidonia, Torre Sant’Antonio, Ponte Dell’Elce, Gregna Sant’Andrea, Torre del Fiscale, Stagni di Ostia, Paglian Casale e via dicendo». «Il blocco dei fondi» ha aggiunto «fermerà i progetti esistenti, approvati, e rallenterà le procedure con il rischio di rendere quei progetti, quando e se saranno finanziati, vecchi, inadeguati e inefficaci sui territori».
E così le nuove periferie attendono “il governo del cambiamento” che a Roma sa tanto di governo dell’immobilismo: grigie e spettrali come appaiono immortalate nelle bellissime foto di Liguori.