Borsellino, la toga,
la fede, il coraggio

Lontana quella domenica del 19 luglio 1992, quando un’auto imbottita di tritolo uccide a Palermo Paolo Borsellino e i cinque della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina; vivide, indimenticabili, le immagini per noi cronisti accorsi in quella devastata via D’Amelio di Palermo.
Una frustata in pieno viso la sentenza del quarto processo Borsellino dove si legge che la strage è stata anche l’occasione del più grave depistaggio della storia della Repubblica.

Via D'Amelio, Paolo Borsellino

Paolo Borsellino

Borsellino sapeva. A uno della scorta dice: «Sono preoccupato e dispiaciuto per voi. So che debbo morire e mi dispiace per voi. So che è arrivato l’esplosivo qui a Palermo» (Processo Borsellino 1, udienza del 16 marzo 1995).
Sapeva. Il collega David Monti, incontra Borsellino a un convegno di Magistratura Indipendente a Bari. Gli appare turbato. Ricorda Monti: «Mi disse: è arrivato l’esplosivo per me. Lo disse davanti ad altri colleghi presenti. Cercai di persuaderlo a tutelarsi, ad allontanarsi per un po’ dalla Sicilia, ma non voleva sentire questi discorsi».
Sapeva: a don Cesare Rattoballi chiede di potersi confessare, perché vuole prepararsi alla morte imminente, e gli confida: «È arrivato l’esplosivo per me dalla Jugoslavia».
Sono passati anni, dalla strage, e ancora tanto c’è da capire, sapere; una quantità gli interrogativi senza convincente risposta.
Aiuta a capire un libro di Vincenzo Ceruso, Paolo Borsellino, la toga, la fede, il coraggio (Edizioni San Paolo, pp.142, 14 euro). Ceruso è uno studioso attento e rigoroso. Ha pubblicato numerosi saggi sulla Cosa Nostra e le sue “imprese”. Tra l’altro A mani nude, biografia di don Giuseppe Puglisi, di cui è stato allievo; e La strage, L’agenda rossa di Borsellino e i depistaggi di via d’Amelio.

Poliziotti e pompieri dopo la strage di via d’Amelio a Palermo

Ceruso si affida alla “chiarezza dei documenti”, non alle suggestioni o a tesi preconcette: «Come sanno quanti hanno familiarità con il metodo della ricerca storica, non c’è nulla di più impuro del ricordo di un testimone. Occorre valutarne i ricordi alla luce dei documenti, qualora siano disponibili, e incrociarli con altre testimonianze». Accade spesso che anche il testimone più disinteressato veda e senta in modo deformato e metta fuori strada.
La tesi di Ceruso è semplice quanto trascurata: «Borsellino viene ucciso per le indagini che conduce, non per quelle che avrebbe potuto portare a termine in un imprecisato futuro. Eliminato non in quanto simbolo di qualcosa, ma perché…raccoglie prove, ascolta testimoni, valuta notizie di reato, si prepara a istruire processi…le sue indagini conducono lungo una strada che quasi nessun altro a Palermo, vuole davvero percorrere fino in fondo in quella tragica estate del 1992, per pigrizia, incompetenza, o paura. O per complicità».
Borsellino diventa un obiettivo da colpire «per i risultati investigativi che ha raggiunto e se un’accelerazione c’è stata nell’esecuzione dell’attentato questa avviene perché egli ha ben presto chiaro chi siano i protagonisti del sistema preposto al condizionamento mafioso degli appalti».

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Dopo la strage di Capaci «la centralità del sistema degli appalti nell’economia mafiosa e quale movente dei delitti eccellenti diviene per lui ancora più chiara, tanto che confida all’amico Antonino Caponnetto di essere fiducioso nella direzione presa dalle indagini su Capaci».
Un paio di settimane prima di essere ucciso, Borsellino confida a Luca Rossi, giornalista del Corriere della Sera, di seguire le indagini sull’omicidio Falcone, di avere un’ipotesi: «Che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando».
Si arriva dunque all’ormai famoso dossier sugli appalti curato dai carabinieri dei ROS guidati da Mario Mori. Lavoro paziente e meticoloso, per tanto tempo “accantonato” e che oggi solleva una quantità di interessate polemiche. Una strada, quella degli appalti e dei colossali interessi economici che ruotavano, che con grande fatica si cerca di percorrere. La strada intuita anche da Falcone quando aveva detto che «la mafia era entrata in Borsa», e che porta a Nord, alla saldatura tra Cosa Nostra e imprenditori. Non a caso uno di loro, interrogato, dirà: «Sugli affari dal Po in su, vi dirò tutto, perché temo la galera. Dal Po in giù non vi dirò nulla, perché temo di essere ammazzato».
La ricerca di Ceruso «ruota intorno ad alcuni atti d’indagine, finora mai oggetto di pubblicazione. Nell’interrogarli, mi sono mosso in base all’idea che il movente ultimo dell’uccisione di Borsellino sia da ricercare nelle sue indagini sul territorio. Mi interessa ciò che interessava a lui. Penso che queste indagini siano state sottovalutate, se non ignorate, sostituendo a esse una molteplicità di causali senza fondamento, spesso in buona fede, altre volte per comodità». Segue una significativa citazione di Marc Bloch, da Apologia della storia o mestiere dello storico: «L’assurda diceria fu creduta perché era utile credervi». Per fortuna non tutti. Non sempre.