Referendum, fa crack
l’opposizione di Landini

Schede dei referendum su lavoro e cittadinanza

Referendum sul lavoro e la cittadinanza. È un gigantesco flop. Arriva una sconfitta, anzi una disfatta non inaspettata. Naufragano i quattro referendum per aumentare la sicurezza del lavoro e quello per ridurre i tempi per acquisire la cittadinanza italiana. L’astensionismo è enorme: l’affluenza alle urne raggiunge appena il 30,6%, una cifra ben lontana dal 50% più 1 dei votanti necessari per rendere valida la consultazione popolare. I sì ai referendum vincono ma non valgono perché manca il quorum.
Buona regola politica imporrebbe una profonda riflessione sui motivi della disfatta e sugli errori commessi. Maurizio Landini, 63 anni, da sei anni alla guida della Cgil, principale promotore dei referendum in accordo con il centro-sinistra e i cinquestelle, scarta l’ipotesi delle dimissioni: «…non ci penso nemmeno…, non cambiamo idea». Attacca: l’invito della maggioranza di destra-centro a non andare a votare dimostra che «c’è una crisi democratica evidente». Azzarda, andrà avanti «perché 14 milioni di cittadini sono andati a votare, nonostante la mancanza di informazione pubblica, ed è la base per un nuovo inizio».

Referendum sul lavoro, Maurizio Landini

Maurizio Landini

Probabilmente c’è stata una scarsa informazione sui cinque referendum sul lavoro e la cittadinanza ma contrapporre la minoranza del 30,6% dei votanti alla maggioranza del quasi 70% di astenuti non ha senso. Parlare poi di «nuovo inizio» indicando un risultato da incubo è una notevole acrobazia. Alle scuole elementari i maestri insegnavano che «non si possono sommare le pere con le mele». La regola matematica di esaminare solo valori omogenei vale anche in questo caso: i votanti sicuramente sono soprattutto elettori del centro-sinistra e cinquestelle ma certamente ci sono anche sostenitori del governo di destra-centro di Giorgia Meloni. Non solo. Bisogna rispettare la minoranza che ha perso ma va rispettata anche la maggioranza vittoriosa grazie alle astensioni.
«Non entro in politica. Ma faccio politica. Eccome se la faccio». Landini oltre dieci anni fa, quando era segretario della Fiom (la federazione dei metalmeccanici della Cgil), smentiva di voler cambiare mestiere come del resto ripete adesso. Eppure miscelava continuamente lotta sindacale e politica. Firmava pochi contratti di lavoro e si gettava in tante agitazioni: scioperi nazionali dei metalmeccanici quando era alla direzione della Fiom. Idem da segretario della Cgil: scioperi generali contro i governi Renzi, Conte, Draghi, Meloni. Scioperi di carattere politico alle volte con Cisl e Uil, alle volte da solo. Tra gli obiettivi c’erano «la coalizione sociale» e «il sindacato di strada». Si erge come unica forza di opposizione, quasi con un compito politico di supplenza. Delinea perfino un particolare ruolo della Cgil e di se stesso come faro politico della sinistra. Repubblica titola una sua intervista: «Landini sfida la sinistra. ‘La politica siamo noi’».

Maurizio Landini ed Elly Schlein

Ma la sua strategia di opposizione sociale e politica non funziona. La riscossa non arriva né per il sindacato, né per la sinistra, né per il centro-sinistra. Comunque per ora non seguirà le orme di Sergio Cofferati: il suo predecessore al timone della Cgil lasciò la confederazione ed aderì al Pd con ambizioni di leadership. Ma non finì bene: alla fine ci fu un burrascoso divorzio dal partito, rientrò con l’arrivo di Elly Schlein al vertice del Pd ma è scomparso dai radar della politica.
Elly Schlein, altra grande sconfitta dei referendum sul lavoro e sulla cittadinanza, ha una posizione analoga a quella di Landini. La segretaria del Pd quasi canta vittoria: «Per questi referendum hanno votato più elettori di quelli che hanno votato la destra mandando Meloni al governo nel 2022». Forse è necessario ripetere: non si possono sommare pere e mele, un conto è il voto per i referendum e un altro è quello per le elezioni politiche. Perseverare nell’errore causa solo disastri e confusione.
Meloni, anche se in chiave populista, dà agli elettori di destra una linea politica chiara. All’insegna di Dio, patria, famiglia riesce ad aggregare le forze di destra-centro (Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega, Noi Moderati) scosse da mille divisioni. La sua leadership di governo alle volte traballa, tra una pulsione autoritaria e l’altra, ma va avanti. Invece il centro-sinistra è diviso al suo interno e con l’alleato pentastellato orfano di Grillo. Anche il Pd, la forza maggiore del centro-sinistra, parla mille lingue diverse in economia, nella sicurezza e nella politica estera e non riesce a incidere. È assente una visione di società da proporre agli elettori.