
Paolo Borsellino
Mai come nelle cose di mafia ci si imbatte in persone che parlano non sapendo; a differenza di altre che sapendo, non parlano. Accade anche per l’anniversario della strage a via D’Amelio: sono trent’anni da quando sono stati uccisi Paolo Borsellino e la sua scorta; da trent’anni la vicenda è come avvolta in un groviglio di menzogne, reticenze, omissioni, non si dice, non si sa. Non solo la questione dell’agenda rossa, che sicuramente quella domenica era nella borsa del magistrato a via D’Amelio, e poi mani istituzionali provvedono a farla sparire.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
C’è altro e di più, a partire da quello che è stato definito il “più grande depistaggio” della nostra storia recente: le accuse di un falso collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, anni e anni di carcere di innocenti che con la strage non avevano nulla a che fare. Una porcata che si vorrebbe partorita dalla sola mente malefica di un questore, Arnaldo La Barbera; e un magistrato, capo della Procura di Caltanissetta, Angelo Tinebra. Peccato siano entrambi morti e dunque non sapremo mai la loro versione dei fatti.
Chi non parla, pur essendo stati più volte, chiamati in causa dai figli di Borsellino sono i magistrati che si occuparono della cosa: si chiamano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo. Hanno dato credito a Scarantino fino all’inverosimile, anche quando era chiaro che raccontava balle sesquipedali. Perché gli hanno creduto? A questa semplice domanda, non rispondono.
Poi ci sono quelli che invece parlano e scrivono, ma molte cose importanti sembrano dimenticarsele. L’ex Procuratore capo Giancarlo Caselli, per esempio. Su Il Fatto quotidiano ricorda Borsellino. Scrive che con grande coraggio aveva manifestato pubblicamente il suo dissenso “dopo la sconcertante decisione del Consiglio Superiore della Magistratura” di nominare a capo dell’ufficio istruzione di Palermo non Giovanni Falcone, ma “un magistrato che di mafia sapeva poco o nulla, Antonino Meli, che aveva il vantaggio di esser molto più anziano”.

Gian Carlo Caselli
Scrive anche: «Commemorando alla Biblioteca comunale di Palermo l’amico ucciso, Borsellino disse che Falcone, preso in giro da “qualche Giuda”, aveva “cominciato a morire” proprio nel gennaio 1988 con l’umiliazione inflittagli dal Csm “con motivazioni risibili”».
Poi aggiunge: «Se non forse l’anno prima, con quell’articolo di Leonardo Sciascia”: vale a dire l’articolo che attaccava Borsellino per la nomina a procuratore di Marsala e che fu poi strumentalizzato per “affondare” Falcone».
Se Caselli si desse pena di leggere “Il disarmati”, un libro di Luca Rossi (Mondadori editore), potrebbe leggere che Falcone a un certo punto dà ragione a Sciascia. Falcone non ha mai smentito quello che Rossi gli attribuisce. Caselli inoltre dimentica che Borsellino e Sciascia si incontrano, si spiegano, si chiariscono: c’è una fotografia molto emblematica e chiara che li riprende, sorridenti e quasi complici, mentre parlano (e naturalmente fumano, essendo entrambi accaniti consumatori di tabacco).
Soprattutto quello che merita di essere ricordato è che alla famosa seduta del Consiglio Superiore della Magistratura che “umilia” Falcone, ci sono anche tre esponenti di Magistratura Democratica. Uno è Caselli stesso. Gli altri due sono Elena Paciotti e Giuseppe Borrè. Caselli vota per Falcone. Paciotti e Borrè per Meli; Paciotti poi viene eletta parlamentare europeo dall’allora Partito Democratico della Sinistra.
Ecco, quando si raccontano le storie, le si devono raccontare tutte.