Cinquestelle allo sbando
È il prezzo della demagogia

Il licenziamento di Conte, Beppe Grillo

Beppe Grillo

Dopo aver detto (e fatto) tutto e il contrario di tutto, Beppe Grillo, il fondatore-garante del M5S, ha licenziato Conte con un post, definendolo un “incapace senza visione politica”. Peccato che appena quattro mesi prima, il 28 febbraio, avesse affidato a questo “incapace” la rifondazione del Movimento, già allora in evidente via di disgregazione. Peccato che poco dopo se ne fosse uscito con una delle sue iperboli: «Conte è meraviglioso».

Peccato che il fondatore di Cinquestelle avesse imposto questo “incapace” per due volte a Palazzo Chigi, con due maggioranze di segno opposto. Prima alla guida della coalizione con la Lega e poi del governo giallorosso con il Pd. Peccato che dall’irripetibile 32 per cento delle politiche del 2018 ad oggi il M5S abbia cambiato pelle in continuazione. Passando dal “vaffa” delle origini, al populismo del governo gialloverde, all’odierno governismo incarnato da Luigi Di Maio.

E ancora: dopo aver detto “mai con il Pd”, Grillo ha voluto l’esecutivo giallorosso. Poi i Cinquestelle hanno detto sì all’ingresso nella maggioranza che sostiene il governo Draghi, dove, non va dimenticato, c’è anche Berlusconi, per anni ridicolizzato come “lo psiconano”.

Il licenziamento di Conte, Giuseppe Conte

Giuseppe Conte

E adesso? Adesso si mette male per Grillo e per il Movimento, che è spaccato, senza un’identità e in via di disintegrazione. Il licenziamento di Conte, l’archiviazione dello statuto messo a punto dall’ex premier per ridimensionare il ruolo del fondatore-garante e trasformare Cinquestelle in un partito sembrano tentativi disperati. Il ritorno di Casaleggio e la riesumazione di un direttorio da votare attraverso la piattaforma Rousseau che era stata cancellata da Conte, mirano chiaramente a un ritorno alle origini, con il recupero dei duri e puri rappresentati dall’eterno Di Battista.

Ma Conte ha già fatto capire che il suo progetto “non rimarrà in un cassetto” e – quindi – prepara la scissione. Le dichiarazioni anti-Grillo di Crimi e del ministro Patuanelli dicono già che l’ala governista e il grosso dei parlamentari pentastellati andranno con l’ex premier, specialmente se cancellerà il limite dei due mandati aprendo la strada a una terza elezione.

Marine Le Pen

Il problema è che già prima della resa dei conti Grillo-Conte i sondaggi assegnavano a Cinquestelle la metà dei voti presi nel 2018 e che nel 2023 ci saranno meno posti, grazie al taglio dei parlamentari voluto proprio dal M5S.

Quindi tutto lascia prevedere un disastro. Con ogni probabilità il Movimento pagherà il prezzo della demagogia, come è già accaduto nelle ultime amministrative francesi che hanno punito il populismo di Marine Le Pen. Ne è uscito a pezzi anche En Marche, il partito mediatico creato a Macron nel 2016 e che l’anno dopo lo portò all’Eliseo. Ma le recenti elezioni francesi dicono anche altre due cose. Che due terzi degli aventi diritto non sono andati a votare, e che quelli che ci sono andati hanno resuscitato due vecchi partiti (gollista e socialista) che almeno una storia, una visione politica e un radicamento sociale ce l’avevano.