D’Alema, riemerge
la gerontocrazia

Giuliano Pisapia ha detto che D’Alema «è uno che divide» e lo ha invitato a farsi da parte. La risposta del “leader Massimo” è stata la scissione del partitino nato dalla rottura con il Pd renziano. Achille Occhetto, dando voce a un antico rancore lo ha definito «un serial killer… che le ha sbagliate tutte». Ma il diretto interessato, sempre a proprio agio nella polemica, sembra deciso ad andare avanti per la nuova strada senza voltarsi indietro.

Massimo D'Alema

Massimo D’Alema

Smessi i panni del viticoltore, si è rituffato nella mischia prendendo la guida di Mdp, nella speranza (ma per D’Alema ci sono sempre e solo certezze) di tornare in auge come leader della sinistra e ritrovare quel posto in Parlamento dal quale lo aveva sfrattato Matteo Renzi ai tempi della “rottamazione”.

Con buona pace della volontà, più volte espressa, di non voler far parte di una minoranza irrilevante, l’ex segretario del Pds, per dirla con Pisapia, si è messo alla guida d’un “partitino del 3 per cento”. Lo ha fatto appena sei mesi dopo (31 marzo 2017) aver ribadito con il solito tono solenne: «Noi abbiamo una vocazione maggioritaria. L’obiettivo è di fare in modo che ci sia un grande partito del centrosinistra».

Ma chi conosce D’Alema, sa bene che la coerenza non è fra le sue doti migliori. Nel 1996 impallinò l’Ulivo di Prodi, che aveva appena vinto le elezioni e conquistato Palazzo Chigi. Meno di tre anni dopo, organizzava a Firenze la grande riunione dell’“Ulivo mondiale”, ospitando  Clinton, Blair, Schröder e i leader di quella “Terza via” che allora andava tanto di moda.

Da presidente del Consiglio, nel 1999 autorizzò l’intervento dei militari italiani nella guerra in Kosovo senza chiedere il voto del Parlamento previsto dalla nostra Costituzione. Gli ci sarebbero voluti dieci anni per ammettere che «fu un errore».

Sfrattato Romano Prodi da Palazzo Chigi, ne prese il posto grazie al sostegno di Cossiga, che insieme ai suoi fedelissimi (“gli straccioni di Valmy”) aveva formato l’Upr, un partitino “fuori dai poli” dove avevano trovato asilo la Cdu di Buttiglione e la neonata Cdr di Clemente Mastella.

Giuliano Pisapia

Giuliano Pisapia

Comunque sia, oggi il vero problema del “compagno Max” messosi al timone di Mdp, non è la coerenza, cosa sempre difficile da chiedere a un uomo politico, il suo grande limite è il bagaglio politico che si porta dietro. Dentro ci sono gli schemi da vecchia scuola di partito (il Pci delle Frattocchie), le antiche ricette che non servono più a nessuno, l’incapacità di trovare risposte adeguate ai bisogni di una società dove tecnologia e globalizzazione hanno cambiato tutto.

Non è un problema solo italiano. La sinistra è in crisi in tutti i paesi industrializzati, proprio perché si dimostra impotente di fronte allo tsunami che, dopo aver spazzato via ogni cosa, ha accresciuto le disuguaglianze tra ricchi e poveri e cambiato radicalmente la vita di milioni di persone.

Il “compagno Max” che oggi riappare sulla scena politica nazionale per rivendicare un ruolo a sinistra del Pd renziano entra quindi a pieno titolo nella “gerontocrazia politica” della sinistra. Come rivelano, prima ancora delle proposte, lo stile e il linguaggio datati. Le parole con cui sferza gli avversari ricordano le invettive di Rodrigo di Castiglia nei corsivi pubblicati sulla Rinascita negli anni Cinquanta. Quando Rinascita era la rivista ideologica del Partito comunista italiano e Rodrigo di Castiglia era lo pseudonimo scelto dall’inflessibile segretario del Pci Palmiro Togliatti.

Marco Minniti

Marco Minniti

Certo, oggi D’Alema non definirebbe André Gide “un pervertito” o Ignazio Silone “un rinnegato”, come faceva “il Migliore”, ma il modo per sminuire e delegittimare chi gli si mette di traverso è lo stesso. Quello che 18 anni fa lo spingeva a parlare dell’allora segretario della Cgil come del “dottor Cofferati” e oggi lo porta a etichettare come “l’avvocato Pisapia” l’uomo politico che vuole dialogare con Renzi.

Ma l’apice D’Alema lo ha raggiunto con il ministro dell’Interno Marco Minniti definito “un tecnico della sicurezza”, un modo per ridicolizzare il ruolo politico di quello che fu il suo braccio destro a Palazzo Chigi. Sessant’anni fa per dileggiare un ministro dell’Interno democristiano, Rodrigo-Togliatti avrebbe potuto usare le stesse parole.